PER UN'ESTETICA DEBOLE
 
Andrea Branzi 28.6.2001

Con questo titolo non si vuole indicare un difetto o un limite, ma una diversità profonda rispetto all'estetica forte e concentrata del XX secolo.
Un'arte, quella moderna, basata sulla massima efficienza dentro all'opera di energie di comunicazione e di senso. Un'arte che interiorizzava tutte le mutazioni strutturali avvenute nella società e nella tecnica, per sublimarle in un unico grande impatto conoscitivo: linguaggi ferrati e altamente discontinui.
Figlia della meccanica, l'arte del XX secolo si è mossa producendo (come la meccanica) il massimo dello stress, dell'attrito e dello shock, in un tempo e in un luogo il più concentrato possibile. La "macchina" come massima concentrazione della "politica" della trasformazione.
Rispetto a quella lontana e eroica stagione, emergono oggi i segni di una estetica debole, fragile, incompleta; priva di un "senso" perché priva di una dirczione (fisica e politica).
Un'arte che appartiene a questa nostra epoca di perenne mutazione, di costante incertezza: illuminata da un'ermeneutica debole (Vattimo), alimentata da energie e tecnologie deboli (elettronica), che segue logiche scientifiche indeterminate e nella quale si muovono sciami dimicro operatori che muovono ingenti economie mentali.
Questo tipo di arte non produce ne codici linguistici, ne isole di senso: essa intercetta quelle energie deboli che ogni notte sollevano i grandi oceani, senza produrre rumore. Energie che non creano terremoti forti e concentrati, ma vasti e profondi bradisismi silenziosi.
Dentro una luce totalmente trasparente e sdrammatizzata (priva cioè di metafisica) galleggiano queste micro-armonie in equilibrio stabile perché prive di metafore.
Le sculture di Bartolini trovano infatti una forma di simbiosi tra organismi a scala diversa, tra materiali diversi, tra cervelli leggeri e sgorbi sottili. Come se fossero detriti di vetro e legno che si danno una mano, e si aiutano a star fermi per l'impossibilità a attivare processi di trasformazione e di direzione.
"Conservano" infatti la posizione raggiunta perché non c'è uno spazio nel quale espandersi, ma semmai meridiani da percorrere e acque in cui immergersi, pozzi in cui scendere, senza acquistare un "senso diverso", ma stabilendo relazioni nuove (anche con le alghe). Sculture relazionali dunque. Dopo la fine dei Grandi Sistemi, restano dunque questi micro-cavalletti che insegnano la modestia del vivere: vivere con pochi tondini di vetro, con pezzi d'asse, e astucci prudenti e furbi. Niente altro che impronte delicate, tracce lasciate da una vita biologica sempre modesta e sempre grande. Quelle sculture prive di segni lirici, volanti, si interrompono sempre, e sono come misteriose equazioni biologiche che cercano di sopravvivere restando aperte, fluide, deboli, trasparenti: per evitare fratture, rigidità, chiusure pericolose. Sculture esistenziali dunque. Quando si parla di un'estetica debole si parla di segni che accettano positivamente l'assenza di più grandi dimensioni e compiono grandi percorsi; nel piccolo riproducono il tutto come negli ologrammi, 1'universo e uguale a ogni sua piccola parte; l'opera non è più una "macchina" ma un link, un ganglio che conserva la fragilità del cosmo.
Opere "conservatrici" del proprio equilibriomodesto, che è l'unico che ci è dato di vivere: esse riproducono le misteriose spirali del cervello, che senza effetti visibili produce conoscenza e coscienza. Siamo in un altro millennio.
Esse si collocano sulla soglia mobile tra opera e non-opera, tra scultura e caso: decisamente e prudentemente reversibili, smontabili.
Non appartengono a una tendenza, ma piuttosto alle previsioni metereologiche: come l'incipit di molti dei più grandi romanzi mittel-europei.
Witold Gombrovich in "Ferdiduke" apre sulla soglia dello "smorto evanescente attimo" tra la notte e il giorno.
Thomas Mann in "Altezza Reale" inizia con un giorno di luce grigia che "esclude ogni stranezza dell'anima".
Robert Musil inizia con la descrizione di una vasta depressione metereologica il suo "Uomo senza Qualità".
Così le radici triestine di Bartolini lo spingono a parlare sotto-tono, come Saba a cui sembrava quasi di sbagliare sempre: le opere si fermano al'"incipit" che tutto promette, ma subito interrompe.
Sono sculture fragili fatte con una penna biro, con un segno cioè industriale che produce anche sgorbi o mezze figure, segni accrocchiati a lunghi steli tratti al pennarello. Senza carta però, nel vuoto. Appunti telefonici in attesa di un collegamento, in un momento di calma assoluta, tra qualcosa che è già successo e qualcosa che succederà.