Il profumo dell'elicriso
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Villa Lanzi è una modesta architettura affacciata su un cortile di proporzioni domestiche, le pareti intonacate e dipinte di ocra, ingombro al centro di una garitta da pozzo piramidata che impedisce la visione completa e contemporanea dei quattro lati.
C'é sempre un lato celato e il cortile, da spazio di inutili passi perduti, acquista misura umana ed abitabile. Un colpo di genio sapiente quanto sicuramente inconsapevole. A sinistra, per chi entri dall'ingresso con il cancello sulla strada, è approntato il tavolo da lavoro, un treppiede miracolistico fatto di tubi piegati, intrecciati ad arte che aprendosi a ragno occupa quasi per intero un settore dello spazio disponibile.
Nell'angolo più vicino, coricata contro il muro come un anima convalescente, c'è una gigantesca foglia di palma essiccata. Riempie di sé il canto riservatole e si è costretti a sostarle davanti in muto raccoglimento, reliquia fossile di passate stagioni. Due bombole, per l'ossigeno e l'acetilene usati da Dario per addomesticare il ferro, sono addossate alla parete. Mazzi di tondini di ferro di sezioni diverse giacciono per terra in tranquilla disarmonia da cantiere.
Alcune cassette di legno ripiene di terra e di agavi abbandonate alla loro arida sorte sono sparpagliate in giro.
I due canti rimanenti del cortile adiacenti all'ingresso sulla strada sono per ora vuoti.
Lo sguardo si volge di nuovo al centro di questo giardino di pietra attratto dalla garitta del pozzo dove una finestrella si apre ad altezza di petto d'uomo, spalancata sulla cavità umida ed inquietante come si conviene alle cisterne ed ai pozzi in genere.
Dario l'ha esorcizzata tessendo nel vano della finestrella un ricamo di tondino d'acciaio, abile e ironico imparaticcio che culmina in un anello di ferro, ultimo residuo di un catenaccio murato nella parete.
C'è un'ora del giorno, dice Dario, in cui il sole entra dalla finestra a colpire l'acqua della cisterna che si riflessa di verde.
La cosa più bella di questo cortile è il colore delle delle pareti, dice ancora Dario. E' un'ocra terrosa cavato dagli ossidi sanguigni che affiorando un po’ dappertutto in Maremma attirano e stupiscono l'occhio curioso quando balenano all'improvviso nel verde della macchia mediterranea.
Una volta ne avevo raccolto un poco e mi ero messo in testa di farne del pigmento per dipingere. A lungo l'ho fatto decantare in un barattolo da marmellata pieno d'acqua ricavandone due dita di polvere finissima come cipria la quale, dopo averla agitata, si depositava in uno strato sul fondo e piccoli crateri si formavano sulla sua superficie generati dalle bollicine d'aria intrappolate nella massa. Pareva abitata da minuscoli esseri. Era bello a vedersi e mi sono tenuto il trastullo per un po’ rinunciando all'idea del colore.
Di vivacissimo arancio è dipinto il piano del tavolo da lavoro di Dario. C'è sopra poggiato un tubetto di tempera, blu di Prussia mi pare, lucido e appena acciaccato ad indicarne l'uso recente.Sul retro della garitta della cisterna, altalenante su uno sperone sporgente dall'intonaco, c'è uno spezzone di tondino di ferro colorato a strisce in toni degradanti di azzurro.
Sta un po’ in alto e nel guardarlo si è costretti a misurarlo con l'azzurro del cielo.
È un accordo altissimo che emoziona.
Intorno, usciti dall'invaso geometrico del cortile, il colore dominante è il bianco d'ossa calcinate del calcare e il verde greve di tono e di profumi del bosco.

L'elicriso, l'oro del sole, dice Lucia raccogliendo un cespuglietto essiccato dal sole e raggomitolato su sé stesso in un ultimo spasimo di sopravvivenza come certe piante desertiche che rotolano nel vento.
L'elicriso è una pianta dal fiore dorato che cresce in terreni asciutti e solatii, abbarbicato in faglie scoscese, talvolta esposte al salino del mare. Ha foglie di velluto morbido da parere quasi privo di linfa. Emana un intenso profumo di spezie che aumenta d'intensità se lo si stropiccia fra le dita.
Elicriso è un nome che non conoscevo e mi sono imposto di ricordarmelo.
Chissà se il metodo dello schiaffo improvviso, diffuso in antico secondo certe cronache, funziona davvero. Ma non posso certo prendermi a schiaffi e non sarebbero comunque inaspettati.
D'estate, quando l'ombra si ritrae sotto i piedi per il sole a picco implacabile e giaguaro, Come scrive Italo Calvino che conosceva bene questi luoghi, il profumo dell'elicriso e l'intensificarsi del frinire delle cicale annunciavano la presenza degli Dei.
In questi luoghi si è tentati di evocarli, in timorosa speranza, il capo scoperto sotto la vampa del sole. Si odono i crepitii di fucileria dei baccelli di ginestrella che esplodono al secco dell'aria e il cocomero asinino può schizzarvi sui piedi la sua bava gravida di semi tondi e neri come pallini di schioppo.
Crepita l'erba secca sotto i piedi nudi e lappole spinose s'insinuano con fastidio fra le dita. Non c'è margine d'incertezza fra luce ed ombra. Aleggia un senso di sofferta intransigenza e la mente percorre sentieri di allucinata fantasia.
Pan delle selve, solare fantasma di mezzogiorno, può ben manifestarsi.
Il poetico si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago, scrive Giacomo Leopardi. Ho in mente questo pensiero mentre sto guardando dal basso la Rocca di San Silvestro.
E' un cristallo di calcare calcinato, nitido ed ostile, appena addolcito dalla luce dorata del sole al tramonto incastrato in una gola profonda, aperta da un lato verso mare.
Muri pazientemente, connessi con parsimoniosi strati di malta l'accerchiano in una rete concentrica di celle simili ad un alveare.
In più punti le case sono ricavate dallo scavo dello sperone roccioso ed è difficile distinguere il naturale dall'artefatto.
Qui c' era il forno, qui un frantoio da olio, al culmine c'era la cisterna che si trova proprio sotto il pavimento del palazzo del Signore del luogo.
Che poi tanto signore non era dal momento che abitava in un'unica stanza, dice ridendo Lucia.
Ma erano più piccoli dì noi?, osserva Francesca. Un’osservazione che viene naturale osservando la ristrettezza dei luoghi.
Una scacchiera da filetto è stata pazientemente bulinata con un trapano su un lastrone di calcare affiorante dal suolo ed adattato a gradone di una rustica gradinata. Una croce maltese incisa sulla roccia ed un quadrato scavato in leggerissima depressione si trovano in altri luoghi all'interno della minuscola cittadella. Questi graffiti hanno linee che risultano da una fitta successione di punti tracciati con mano leggera, quasi infantile.
Il calcare è appena scalfito con fori di pochi millimetri di diametro e profondità, scavati con un trapano o con un punteruolo.
Eppure era un paese di minatori avvezzi a scavare pozzi e cunicoli con la sola forza delle proprie braccia e tutti sapevano maneggiare mazze e scalpelli con forza e maestria.
Quasi avessero paura di offendere il genius loci, che è tutt'uno con la durezza di questo calcare, con un segno netto e vigoroso.
Oppure più semplicemente nell'incertezza nella precarietà, nell'uso intelligente e parsimonioso delle proprie forze sta la misura di questo luogo.

Gilberto Corretti
4 agosto 1998
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